Stefan Zweig – Novella degli scacchi
“Ma non ci si rende già colpevoli di una limitazione offensiva, nel chiamare gli scacchi un gioco?” (Novella degli scacchi, pag. 29).
Scritto nel 1941 e pubblicato postumo nel 1943 dopo il suicidio dell’autore, Novella degli scacchi è legata a doppio filo all’ultimo periodo di vita di Stefan Zweig, alla sua condizione di ebreo costretto all’esilio – prima in Inghilterra, poi in Brasile – per sottrarsi alla follia del Nazismo.
La trama. Su una nave da crociera diretta a Buenos Aires nei primi anni ’40 si incrociano, per la durata di qualche partita a scacchi, le vite del narratore, del campione del mondo Mirko Czentovic e del misterioso dottor B.
Czentovic, cresciuto dal parroco del villaggio dopo essere rimasto orfano, a malapena in grado di leggere e scrivere – la sua ignoranza è universalmente nota, come il suo unico talento -, schivo e arrogante, ha imparato a giocare a scacchi osservando le partite del parroco e, nel giro di qualche anno, è diventato campione del mondo. Il narratore, interessato ad avvicinarlo, riesce a organizzare una partita contro un gruppo di appassionati presenti a bordo.
A Czentovic sono sufficienti poche mosse per ottenere la vittoria, e anche la successiva rivincita sembra volgere verso lo stesso esito, quando l’intervento provvidenziale di uno sconosciuto determina sorprendentemente una patta. Chi è quest’uomo? Dove ha imparato a giocare così bene?
E’ dallo stesso dottor B., dalla sua bocca scossa da un lieve tremito, che veniamo a conoscenza della sua storia, una storia in cui un libro di scacchi – una raccolta di 150 partite magistrali, per la precisione – ha giocato un ruolo determinante.
Questo è un libro sugli scacchi e, allo stesso tempo, non è solo un libro sugli scacchi.
C’è una scacchiera, ci sono degli avversari che si affrontano e partite giocate, il tutto inquadrato in quel contesto di dinamiche, emozioni e manie che ogni scacchista ben conosce. E gli scacchi sono stati fondamentali nella vita dei due protagonisti, hanno rappresentato per entrambi, Czentovic e il dottor B., una via di fuga, l’unica possibile: per l’orfano ignorante, quella concreta dalla condizione sociale; per il dottor B., quella mentale dalla costrizione fisica. Gli scacchi come escapismo.
Ma sono anche l’espediente per raccontare l’universale storia dell’homo homini lupus, che qui assume le vesti dell’oppressione nazista, che determina la fine del “mondo di ieri” particolarmente sentita dall’autore. E dunque gli scacchi diventano metafora della lotta per la sopravvivenza che vede schierati due giocatori (e quindi due visioni del mondo e due stili di vita) antitetici: l’automa puro calcolo, senz’anima, privo di qualunque virtù e conoscenza, tutto teso al guadagno e alla supremazia fine a sé stessa, e l’uomo sensibile e colto, con tutte le sue incertezze e debolezze.
Nel 1960 il regista Gerd Oswald ha realizzato una trasposizione cinematografica, Schachnovelle (nella versione italiana, Scacco alla follia), che nonostante la buona interpretazione di Curd Jürgens nella parte del dottor B., si discosta troppo dall’originale senza riuscire a mantenerne la tensione e lo spessore, così che l’impressione che ne deriva è quella di un pallido riflesso del romanzo.