La bambina
Nell’immenso salone le innumerevoli fila di tavoli erano state predisposte in modo tale da creare un’ampia distanza tra loro. Alcuni uomini vestiti di nero si aggiravano tra i banchi col volto arcigno, controllando che ogni cosa fosse in ordine.
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“Ai propri posti.” Gridò quello che doveva essere il capo.
Eravamo tutti seduti, tranne qualcuno che ancora ciondolava attorno al tavolo che gli era stato assegnato, grattandosi nervosamente la testa o cercando una penna nel taschino della giacca.
“Vi ricordo” continuò a gridare l’uomo, “che non è consentito l’uso del cellulare.”
Di fronte a me si era seduta una bambina; nonostante le braccia e le gambe lunghe, sproporzionate rispetto al resto del corpo, la facessero apparire più grande, non doveva avere più di dieci o undici anni. Portava i capelli biondi a caschetto e l’eccessivo chiarore della pelle le conferiva un aspetto malato. Non riuscii a decifrare il colore degli occhi, un po’ perché li teneva abbassati, un po’ perché sembrava non avessero alcun colore.
Le rivolsi un saluto in inglese, e lei, come risposta, diede due o tre morsi a un trancio di pizza, per poi lasciarlo sbocconcellato su un piatto di carta che allontanò verso di me con sdegno. Dal tavolo vicino si alzò un signore biondo, probabilmente suo padre, il quale, dopo averle rivolto alcune parole in una lingua che io ritenni fosse finlandese, afferrò l’avanzo di pizza, lo trangugiò in un sol boccone, e ritornò soddisfatto al proprio posto.
“Orologi del bianco in moto.” Ci intimò l’uomo vestito di nero.
Porsi la mano alla bambina e ricevetti la stretta fugace di due dita umide e mollicce. Approfittai, prima di immergermi nel gioco, di dare uno sguardo alle numerose fila di tavoli ed ebbi l’impressione di vedere, al posto dei giocatori piegati sulle scacchiere, dei forzati al remo di antiche galere. Mi domandai come gli esseri umani avessero potuto escogitare qualcosa di tanto crudele.
Avevo fatto un lungo viaggio per arrivare fin lì, avrei potuto visitare la fantastica città di Zauberdorf, andare al cinema, a un museo, invece mi ritrovavo a studiare dei pupazzetti di legno di fronte a una bimba che non smetteva di sgocciolare dal naso. Erano le otto di sera e non avevo ancora mangiato, fiducioso che avrei trovato un momento di pausa durante la partita per andare a prendere un panino.
Intanto la bambina aveva mosso e messo in moto l’orologio. Si era portata entrambe le mani alla fronte per poter meglio fissare la scacchiera. Eseguì le prime mosse in completo accordo con la moderna teoria. Conoscendo il modo di giocare dei bambini non mi impressionai: essi, infatti, sono soliti ripercorrere le orme dei grandi giocatori del passato, senza però conoscerne a fondo le ragioni strategiche. Mi preoccupava soltanto il fatto che, mentre lei giocava in modo automatico, io dovevo riflettere a lungo per trovare le risposte appropriate, vedendo così sfumare la possibilità di andare a mangiare. Superata la fase dell’apertura accumulai circa trenta minuti di svantaggio. Fu a questo punto che la bambina si fermò a riflettere, riuscendo a sventare un trabocchetto che le avevo teso e a consolidare al tempo stesso la posizione. Non che avesse un vantaggio significativo, mi sottomise però a una leggera pressione che aumentò di mossa in mossa e, per quanti sforzi facessi, non mi liberai più da quella morsa continua e tenace. Mi aspettavo un improvviso attacco sventato, come sono soliti fare i bambini non appena si sentono più forti, invece la mia piccola avversaria affilò tutte le armi incrementando dei minimi vantaggi che mi costrinsero a una difesa tanto esasperata quanto umiliante.
Quando pensai di avere finalmente riequilibrato le sorti della partita, la bambina finlandese, con un’inaspettata e brillante combinazione, mi sacrificò un pezzo, per riprenderlo successivamente con un pedone di interesse. Pur accusando il colpo cercai di rimanere impassibile. Sollevai di nuovo lo sguardo verso gli altri giocatori e questa volta, al posto dei forzati delle galere, mi sembrò di vedere dei monaci inginocchiati che si lasciavano flagellare dagli uomini vestiti di nero. Sarà stato per la fame, o per la luce tremolante dei neon, per lo squallore della grande sala silenziosa o per la stanchezza, fatto sta che queste visioni mi impedivano di concentrarmi. Ritornai dunque a guardare la bambina e mi accorsi che da quando mi aveva preso il pedone era divenuta, se possibile, ancora più pallida, inoltre aveva aumentato il ritmo del respiro e tirava su con il naso con sempre maggiore frenesia. Avrei desiderato offrirle un fazzoletto di carta, ma temetti con questo gesto di distrarla.
Nel frattempo il padre della bambina aveva terminato la sua partita e si era avvicinato al nostro tavolo. Levatosi le scarpe si dondolava sulle punte dei piedi. La prima cosa che notai furono i suoi corti calzini celesti. Ci osservava dall’alto con aria compiaciuta, facendo ogni tanto schioccare le labbra.
Nonostante il pedone in meno, la mia situazione non era del tutto compromessa; avevamo quasi tutti i pezzi sulla scacchiera e, se non in una vittoria, potevo ancora sperare in una patta. Con la forza della disperazione mi aggrappai ad ogni appiglio, cercai di tendere i tranelli più subdoli, di mantenere una posizione torbida e complessa in attesa di un possibile errore, ma, come una mosca intrappolata in un bicchiere, andavo a sbattere su tutte le pareti di vetro che incontravo. La bambina mi forzò prima a cambiare la regina, poi le torri, infine gli alfieri. Mi rendevo conto della potenza delle sue mosse soltanto in seguito, quando incrociavo lo sguardo soddisfatto del padre.
Dopo tre ore di sterile lotta giunsi a un finale perso, nel quale il pedone di vantaggio della mia avversaria se ne andava inarrestabile a promozione.
Chi crede che gli scacchi siano un gioco aristocratico, leale, cavalleresco si sbaglia di grosso. Qui non c’è pietà per nessuno, tanto meno per le donne e i bambini, e la cosa bella è che, come in questo caso, nemmeno i bambini hanno alcuna pietà per gli adulti.
Sconfitto, porsi la mano in segno di resa e ricevetti la solita stretta fugace, dopodiché mi fu subito sottoposto il referto da firmare. Lo portai all’uomo vestito di nero che mi attendeva con una truce espressione di rimprovero, forse perché eravamo stati gli ultimi a finire e gli altri giocatori se ne erano già andati da un pezzo. Gli consegnai il referto senza dire una parola. Con i due finlandesi attraversai la grande sala ormai vuota, assorto nel silenzio. Raggiungemmo l’unico bar presente in zona e, con mia amara sorpresa, lo trovammo chiuso. Allora la bambina aprì la borsetta, tirò fuori una tavoletta di cioccolato al latte, la spezzò e me ne diede metà con un sorriso. Era la prima volta che la vedevo sorridere. Poi se ne andò insieme al padre cinguettando alcune frasi nella sua lingua incomprensibile. La osservai mentre si allontanava contenta per quella vittoria.
E io ero contento per lei.