Accademia Scacchi Milano

Gli scacchi nel cuore di Milano

I Racconti di Alberto Velluti

Un circolo vizioso

racconti20Velluti1La targhetta di ottone era stata bruciacchiata più volte e la scritta ormai annerita era divenuta illeggibile, sotto, però, qualcuno vi aveva riscritto il nome con un pennarello nero, dunque, non potevano esserci dubbi: quello era proprio il posto che stava cercando.

Giovanni si sentì orgoglioso per quella scoperta. D’altra parte sua mamma lo ripeteva spesso alle amiche: “Un genio. Mio figlio. Pensate. Nove anni. E gioca a scacchi!” Con enfasi sottolineava la parola “scacchi” mentre le amiche strabuzzavano gli occhi. “Wow. Madaai. Oooh.” Erano le esclamazioni più originali. “Un genio” ripeteva lei, “voi non potete capire. Diventerà sicuramente un uomo famoso.”

Sì, è vero: Giovanni giocava ogni sera una partita a scacchi con suo padre e a volte riusciva perfino a metterlo in difficoltà.

Di fronte a quella porta gli sembrava, se non di essere un genio, di essere comunque un bambino molto sveglio. Aveva scovato quel posto da solo, senza l’aiuto della mamma, aveva avuto la brillante idea di consultare l’elenco telefonico, cosa che non aveva mai fatto prima, si era inoltrato in una zona della città che non conosceva affatto, in un vicolo scuro e maleodorante. Avevano cercato in tutti i modi di ostacolarlo. Prima i genitori dicendogli di aspettare un altro anno, poi quell’insegna bruciata, neanche a farlo apposta!

 

“E già, un luogo simile” pensò Giovanni, “non può che trovarsi in una zona malfamata e difficilmente raggiungibile. Non può essere alla portata di un bambino qualsiasi. No! Qui si gioca a scacchi, non si scherza.”

Aveva immaginato il circolo come una specie di setta segreta, e così l’aveva trovata.

Al primo momento di esaltazione subentrò un senso di disagio e inquietudine. Forse, adesso che aveva trovato la strada, poteva comodamente ritornare un altro giorno. Con questi poco incoraggianti pensieri si sforzò di allungare una mano verso il campanello, e, dopo un profondo sospiro, suonò. La porta si aprì immediatamente con uno scatto. L’atrio era buio e per prima cosa Giovanni vide le grate arrugginite di quello che avrebbe dovuto essere un ascensore. Una sedia rotta ne bloccava l’entrata e un cartello sulla sedia indicava che era guasto. A questa notizia il bambino provò un senso di sollievo, con aria circospetta salì per delle scale polverose e giunse a un portone di legno massiccio lasciato semiaperto. Si aspettava ci fosse qualcuno ad accoglierlo, ma non trovò nessuno. Entrò in un ampio salone con il parquet di legno rovinato e udì in lontananza un vociare confuso. C’erano in fondo al salone dei tavoli immersi in un fumo denso. Il bambino mosse i primi passi verso quei tavoli facendo scricchiolare il pavimento, e più cercava di camminare lento per timore di rovinare la concentrazione degli scacchisti, più faceva rumore. Nessuno, comunque, mostrò di essere infastidito da quello scricchiolio, anzi, sembrava non se ne accorgessero nemmeno. A mano a mano che si avvicinava, il loro vociare confuso divenne così intenso da superare il rumore da lui provocato. Giovanni si fermò cercando di decifrare alcune parole. Usavano un linguaggio enigmatico, una miscela di diverse lingue: latino, russo, tedesco, e altre ancora che non aveva mai udito prima. Sembrava ripetessero delle litanie, delle formule magiche, spesso si scambiavano reciproci insulti, o complimenti di cui si stentava a capire se fossero sarcastici o meno. A questo si dovevano aggiungere continui borbottii e grugniti. Il bambino dovette abituare la vista al fumo per dare a quelle voci un volto. Vicino ai tavoli da gioco c’erano delle finestre aperte da cui penetravano i raggi del sole che riuscivano faticosamente a far breccia, mentre l’aria primaverile giocava col fumo formando ogni tanto delle curiose figure, ma per il nuovo arrivato le figure più curiose erano quelle dei giocatori. Ne contò circa una dozzina, e, anche se non tutti lo erano, ai suoi occhi parevano molto vecchi.

Giovanni dovette abituare anche l’olfatto perché, nonostante le finestre aperte, c’era un odore di stantio, di sigarette e sudore; chissà, magari avevano aperto la finestra soltanto ora, vedendolo arrivare. Osservò a uno a uno i volti dei giocatori e, a dire la verità, non gli sembrava avessero delle espressioni molto intelligenti. Per fortuna non era venuto con la mamma. Ce n’era uno grasso con la camicia aperta che si grattava la pancia prominente e pelosa. Costui eseguì una mossa in modo rapido, dando un forte colpo a uno strano marchingegno di legno che teneva vicino e facendo tremare il tavolo e i pezzi sulla scacchiera. Il suo avversario invece stava con la bocca aperta e gli occhi socchiusi.

-Copula alfierorum.- Pronunciò con fare riflessivo catturando un alfiere e portandoselo distrattamente alla bocca, e schiacciò anche lui il marchingegno con provocatoria lentezza. A questo atteggiamento di sfida il grassone rispose con un rutto.

-Concordo.- Fu il commento dal tavolo vicino. Proveniva da un vecchio magro e pallido con la barba bianca mal rasata, delle venuzze rossastre gli segnavano le palpebre degli occhi. Giovanni lo osservò con attenzione per alcuni minuti. Lo vedeva muovere i pezzi con scatti nervosi e tremolanti, sospirando per l’ansia a ogni mossa. L’avversario lo chiamava Tremens e ghignava. Lui replicava chiamandolo Babaigà che nessuno sapeva cosa significasse. A poco a poco Giovanni si accorse che a ognuno di loro era stato appioppato un bel soprannome. Certi ne possedevano anche più di uno. In particolar modo venivano dati nomi di animali per sottolineare le capacità tecniche dei giocatori: tarma, ostrica, sciacallo, pollastro, zecca erano i più utilizzati. Al terzo tavolo, ad esempio, un giocatore venne chiamato Aquila dopo che aveva lasciato un pezzo in presa. Era uno dei suoi innumerevoli soprannomi. Il suo avversario, invece, ne aveva uno solo: lo chiamavano Anima foetens, per il contributo aromatico che dava all’ambiente, senza nulla togliere al maestro Flautolo, che purtroppo quel giorno non era potuto venire. Giovanni, comunque, non riuscì a comprendere la maggior parte di quei soprannomi, così come non riusciva a capire nemmeno il resto dei discorsi. Notò come tutti muovessero rapidamente, senza riflettere per più di cinque secondi a mossa, salvo rari casi.

Si spostò quindi al quarto tavolo dove si trovava un giocatore all’apparenza più giovane degli altri, un amico di Flautolo, dal quale aveva imparato alcuni trucchi. Costui rimaneva come un falco con le mani, o meglio, gli artigli sospesi sulla scacchiera, pronto per muovere più in fretta possibile, non lasciando all’avversario nemmeno il tempo di concludere la propria mossa.

-Tempo, tempo!- Gridò il giovane con voce stridula, levando le mani al cielo in segno di vittoria, per poi riprendere subito una nuova partita sempre con lo stesso sistema.

-Re in presa, re in presa!- Si sentì ripetere in modo petulante dal tavolo vicino. Era l’Ammuffito, uno dei più anziani soci del circolo, il quale faceva notare con un lampo di gioia negli occhi come il suo avversario non si fosse accorto di avere il re sotto scacco.

Giovanni non riuscì a capire quelle nuove regole né si ritrovò in quel modo di giocare frenetico e oltraggioso. Suo padre gli doveva avere insegnato un altro gioco.

Aveva atteso per più di mezz’ora e nessuno gli aveva rivolto la parola né fatto un semplice cenno di saluto, e lui non osava chiedere di giocare. Si diresse allora verso l’ultimo tavolo, dove gli pareva si giocasse in modo più tranquillo. Un uomo dall’aspetto insignificante stava riflettendo da più di un minuto. Giovanni guardò bene la scacchiera e vide che il nero non aveva più pezzi a disposizione, gli era rimasto soltanto il re che per sfuggire doveva nascondersi tra i pedoni avversari. Al contrario il bianco, oltre a diversi pezzi minori, possedeva addirittura due regine. L’uomo insignificante rifletté altri minuti, finché non perse per il tempo, qualsiasi mossa avesse fatto avrebbe preso scacco matto.

A Giovanni venne di nuovo in mente suo padre, il quale gli aveva spiegato che per imparare bene a giocare a scacchi bisogna prima imparare a rispettare l’avversario, e quando si è in una posizione senza speranza è dignitoso abbandonare.

Così, dando un’ultima occhiata a quella scacchiera, se ne andò via deluso.

*****

A quel circolo Giovanni è ritornato molti anni dopo, nemmeno lui ricorda bene quando. All’incirca trenta o quarant’anni dopo. La vita non gli ha dato le soddisfazioni che si aspettava. Perfino sua madre ha smesso di illudersi e di illuderlo, e di tanto in tanto la si sente lamentarsi con le poche amiche rimaste a proposito del figlio, che, invece di diventare un uomo famoso, perde tempo a giocare a scacchi. Sì, perché gli scacchi, nonostante tutto, sono rimasti suoi fedeli compagni. Al circolo non ci sono più quei soci che aveva visto da bambino sebbene quelli nuovi un po’ glieli ricordano. Qualcuno che li ha conosciuti meglio di lui a volte li nomina e ne parla come fossero stati grandi personaggi storici. “Flautolo!” Gli sussurra tal volta un socio alzando gli occhi lacrimosi al cielo, “Flautolo! Avresti dovuto conoscerlo.” E iniziano interminabili dispute sugli antichi soci sempre più bravi e più degni degli attuali.

L’altro giorno Giovanni stava giocando contro Fraudio, uno dei suoi più acerrimi avversari, aveva due torri di svantaggio, ma ben dieci secondi in più, quando all’improvviso udì il pavimento scricchiolare. Sollevò per un attimo lo sguardo e scorse la figura di un bambino farsi avanti. Pregò in cuor suo che ritornasse indietro, invece si fermò lì a guardarli. Sapeva che anche gli altri giocatori lo avevano notato, ma facevano finta di non vederlo. Come loro sperò che il bambino non fiatasse, e, soprattutto, non chiedesse di giocare.

“Questo bambinetto’” pensò tra sé, “proprio qui doveva venire. Magari è capace di chiedermi il turno.”

Senza farsi vedere gli diede una sbirciatina e provò fastidio. Lo vide mentre stava osservando gli altri tavoli da gioco; quel suo modo di guardare attento e severo lo faceva stare male. Lui sapeva cosa quel bambino stesse pensando di loro in quel momento. Giovanni spense la sigaretta sul portacenere aspettando di muovere. Qualsiasi mossa avesse fatto avrebbe preso matto. Il bambino gli si avvicinò e scrutò la scacchiera per alcuni minuti, poi se ne andò via con aria sconsolata.

Solo a quel punto Giovanni appoggiò la mano sull’orologio, guardò in faccia il suo avversario, e abbandonò

 

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