Accademia Scacchi Milano
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L’ Avversario
Magazine - I Racconti di Alberto Velluti
Scritto da Alberto Velluti   
Domenica 23 Settembre 2012 19:34

image003Concentrazione occorreva, molta concentrazione. Non c’era più un momento da perdere: il suo avversario aveva completato la mossa e aveva fermato il proprio tempo a sette minuti e sei secondi, mentre a lui ne rimanevano quattro e trentasette, e già avevano ripreso a scorrere.

Si pentì perfino di essere andato in bagno durante la partita e di essersi soffermato a guardare le scacchiere di altri giocatori. La situazione, ad ogni modo, non era poi così grave: mancavano soltanto tre mosse per poter chiedere all’arbitro un incremento di trenta minuti, inoltre era consapevole di avere raggiunto una posizione leggermente superiore nonostante un inizio davvero difficile.

D’altra parte era quella, secondo lui, l’ultima occasione che gli restava per entrare nell’Olimpo degli scacchisti. I primi quattro classificati di quel torneo, infatti, si sarebbero qualificati per la fase finale del campionato del mondo che, come tradizione, si sarebbe tenuta a Zauberdorf. Per anni questa splendida cittadina era stata al centro dei suoi sogni; lui, un semplice, si fa per dire, Maestro Internazionale contro i sedici giocatori più forti del pianeta, tra cui anche il leggendario Igor Sdriboscenko, il più grande campione di tutti i tempi, del quale aveva studiato ogni partita. Ma quanti sacrifici aveva dovuto affrontare per arrivare a quel punto! Sapeva che alla sua età non avrebbe più potuto ormai sopportare simili tensioni. L’ultimo anno lo aveva interamente dedicato allo studio degli scacchi, inoltre problemi famigliari avevano acuito le difficoltà. Negli ultimi mesi sua moglie aveva dato sfogo al suo piccolo dizionario degli insulti: fallito, smidollato, egoista, non pensi mai a me né ai tuoi figli, ma che razza di uomo è uno che se ne sta tutto il santo giorno a muovere insulsi pezzettini di legno, miserabile, inutile, parassita, e via dicendo, sempre più pungente e volgare. Cercava ogni pretesto per fargli fare qualcos’altro e distoglierlo dai suoi propositi. Lui aveva resistito con tenacia e aveva finito con l’abituarsi a quelle offese. La conosceva fin troppo bene e sapeva che alla cerimonia di premiazione, se avesse vinto, si sarebbe di colpo trasformata dimostrandosi orgogliosa di avere un marito tanto bravo e abile in quel gioco per soli geni. Avrebbe sorriso ai flash dei fotografi e letto ogni articolo che lo riguardasse. Fino ad allora, però, soltanto fango e frecciatine mirate ad accrescere i suoi già forti sensi di colpa. Quello che invece lo aveva ferito è che anche i figli, pur senza proferire parola, avevano cominciato a guardarlo con una certa aria di commiserazione.

Sarà stato anche per questa atmosfera ostile che il torneo era cominciato subito male: con un’inappellabile sconfitta. In seguito alcune vittorie e pareggi lo avevano riportato in alto, a sperare di nuovo. Adesso si trovava a giocare in terza scacchiera; una vittoria gli avrebbe consentito il passaggio alla fase finale, mentre con una patta avrebbe dovuto sperare nel risultato negativo degli altri diretti concorrenti. Una sconfitta lo avrebbe rispedito a casa tra le braccia affettuose della moglie.

Il suo avversario era un Grande Maestro islandese. La prima cosa che aveva pensato vedendo il suo nome e lo stato da cui proveniva era che in Islanda da alcuni anni era scoppiata una grande passione per il nobil gioco, sembrava quasi che lì ci fossero più giocatori di scacchi che abitanti, e la maggior parte forti e preparati. Non lo aveva mai incontrato prima e neppure lo aveva notato in altri tornei; fin dal momento che gli si era seduto di fronte aveva avuto una sgradevole impressione. Il Grande Maestro islandese gli aveva stretto la mano con un tocco freddo e leggero quasi a voler sottolineare la propria superiorità. Nel ricambiare la stretta di mano gli aveva dato una sfuggevole occhiata ed era rimasto sconcertato dall’aspetto fisico. Solitamente non dava importanza al lato esteriore, di scacchisti brutti nella sua carriera ne aveva incontrati parecchi, ma questo superava ogni limite.

La sua pelle aveva un colorito chiaro, quasi albino, sul volto pallido risaltavano le sottili labbra violacee, da dietro un paio di ridicoli occhiali antiquati gli occhi scavati e cerulei lanciavano di tanto in tanto un bagliore di falsa cordialità, sul mento e sul collo aveva lasciato crescere in modo scomposto dei peli rossastri che si grattava con regolarità, mentre i radi capelli rossicci lasciavano intravedere le angolosità del cranio. Non doveva inoltre far molto ricorso all’igiene personale perché con la sua presenza l’aria si era impregnata di un olezzo acidulo e stantio.

Durante tutta la partita il nostro eroe non era riuscito a sostenere il suo sguardo se non per qualche istante, c’era qualcosa in quell’individuo di disgustoso, provava nei suoi confronti un senso di repulsione che andava oltre il semplice aspetto esteriore e non sapeva spiegarsi a cosa fosse dovuto. Mai gli era capitato di avvertire un sentimento simile prima di quel giorno.

Nella fase di apertura il Grande Maestro islandese aveva immediatamente preso l’iniziativa con delle mosse precise e del tutto rispondenti alla recente teoria; il suo stile privo di fantasia era comunque solido e a tratti spietato tanto che nel medio gioco l’iniziativa si era concretizzata in un leggero vantaggio e lui aveva dovuto inventarsi alcune mosse veramente brillanti e creative per rimettere in equilibrio la partita e ottenere addirittura una posizione favorevole. Purtroppo aveva dovuto riflettere a lungo ed era andato in ritardo di tempo; ne era tuttavia valsa la pena dato che l’avversario pareva essere rimasto sorpreso da quelle mosse e gli aveva concesso di recuperare in parte il distacco dei minuti.

Ora, ripeto, gli restavano quattro minuti e trentasette secondi. Quattro minuti e trentasette secondi lo separavano da Zauberdorf! Raccolse dunque le residue energie mentali e si concentrò sulla scacchiera. C’erano tre mosse principali che andavano prese in seria considerazione.

La prima delle tre possibilità era quella di muovere un cavallo e forzare il cambio delle torri; sembrava la soluzione più semplice e rapida per ottenere una patta, un pareggio contro un Grande Maestro non sarebbe stato un risultato da scartare però non gli avrebbe garantito di raggiungere il suo ambizioso obbiettivo dato che non sapeva ancora il risultato degli altri giocatori. Rapidamente decise che su quella mossa sarebbe ritornato in caso non ne avesse trovate di migliori.

Intanto l’avversario aveva iniziato a tamburellare nervosamente le dita ossute sul tavolo. Questo atteggiamento gli diede abbastanza fastidio però fece finta di non notarlo. Si innervosì anche del fatto che alcune persone si erano fermate attorno al tavolo a osservare la partita. Nei precedenti tornei non aveva mai sofferto di tali debolezze psicologiche, evidentemente sentiva il peso del torneo e delle tensioni accumulatesi. Cercò di non pensarci e di prestare tutta l’attenzione alla scacchiera. Passò ad analizzare dunque la seconda possibilità: cambiare subito i pezzi leggeri ed entrare in un finale di torre e pedoni. Purtroppo non poteva valutare in profondità un finale tanto complesso quanto rischioso e quindi si risolse a passare subito alla terza possibilità. Qui si trattava di dare scacco con la torre, il suo avversario avrebbe potuto spostare il re nell’unica casa libera oppure coprire a sua volta di torre; in questo caso c’era un piccolo tranello da tendere, ma dubitava che un Grande Maestro potesse minimamente cascarci e, a parte quella sciocca trappola, non vedeva un seguito chiaro. Rassegnato decise di ritornare sui suoi passi, alla prima possibilità. Stava già per afferrare il cavallo quando un improvviso colpo di genio balenò nella sua mente. Esisteva una quarta possibilità! L’aveva intravista mentre analizzava lo scacco di torre, ma soltanto ora gli si era presentata in tutta la sua forza. Bisognava, prima di dare lo scacco, avanzare un pedone di una casa. Che stupido a non averla vista prima! Una semplice mossa di pedone dischiudeva nuovi e vasti orizzonti. Innanzitutto apriva la diagonale dell’alfiere che fino a quel momento aveva giocato soltanto in difesa e poi indeboliva la struttura pedonale dell’avversario. Si chiese come avesse potuto trascurarla: lì davanti agli occhi aveva la parola vittoria scritta a caratteri cubitali. Il cuore prese a battergli come un tamburo, sollevò per un attimo la testa osservando il suo avversario che attendeva impassibile, per poi rituffarsi nella scacchiera accarezzandosi nervosamente le tempie con entrambe le mani. Certo il Grande Maestro poteva prendere il pedone, ma in quel caso lo avrebbe recuperato con gli interessi. E se non lo prendeva? Allora quell’eroico pedone sarebbe andato dritto a Zauberdorf!

Mentre esaminava un’eventuale contromossa udì un brusio da parte delle persone che si erano fermate attorno al tavolo a osservare; le zittì con un’occhiata fulminante. Nello stesso istante il Grande Maestro si era sporto in avanti quasi a voler attirare la sua attenzione. Come osava disturbarlo con simili mezzucci in un momento tanto critico? Gli rivolse uno sguardo furente, ma questi per nulla intimidito lo invitò con un cenno del capo a guardare l’orologio. Tre zeri beffardi lampeggiavano sul proprio display.

Era finito il tempo, proprio adesso che aveva trovato la mossa giusta. Non gli sembrava possibile: quattro minuti e trentasette secondi passati in un baleno. Sarebbe bastato eseguire altre tre mosse e avrebbe ricevuto il bonus di trenta minuti. Se la prese con se stesso, ma ancor più con quel pedone che facendogli assaporare il gusto della vittoria gli aveva fatto anche perdere la concezione del tempo.

Il Grande Maestro islandese allungò entrambe le mani e, come per consolarlo, lo afferrò delicatamente per gli avambracci. Strano: non erano poi così fredde quelle mani, anzi, erano le sue ad essere diventate gelide. Avrebbe desiderato commentare quella mossa di pedone, ma le parole gli si bloccarono nel petto, e poi era del tutto inutile: di sicuro il suo avversario l’aveva vista prima di lui.

Guardò imbarazzato il capannello di persone ferme attorno al tavolo. C’era qualcosa di famigliare in quei volti che lo osservavano preoccupati dall’alto in basso. Ma cosa ci faceva lì sua moglie? E i suoi figli? Perché lo guardavano con quell’aria seria e compita? A loro si era aggiunto anche il suo miglior amico, il dottor Iatrovskij. Ah, che facce che avevano!

“Mi dispiace, il suo tempo è scaduto” lo richiamò cordialmente l’avversario, “dobbiamo andare.”

Ritornò a guardare il volto scarno del Grande Maestro che gli aveva parlato per la prima volta dall’inizio della partita. A osservarlo con attenzione non gli faceva nemmeno tanto ribrezzo e si ricordò del sentimento che in precedenza non era riuscito a definire: era di angosciosa paura. Ora che aveva perso, però, non la provava più.

“Non si preoccupi” lo rassicurò l’avversario come se gli avesse letto nel pensiero, “succede a tutti così: finché non mi conoscono mi temono, ma quando mi incontrano ogni paura si spegne.”

Gli pareva di avere già udito una frase simile, forse ai tempi del liceo da qualche professore di filosofia. Capì finalmente con chi aveva a che fare.

Bel modo aveva avuto di presentarsi la Signora delle tenebre, la Regina nera: travestita da giocatore di scacchi. Ora, pensò, schiude quelle labbra sottili e violacee in una macabra risata che echeggerà per tutto il salone oppure scopre la maschera mostrando il suo vero volto: un orribile teschio con quattro ossa. Nulla di tutto questo: gli occhi cerulei del Grande Maestro avevano uno sguardo dolce e compassionevole. Sembrava perfino dispiaciuto di avere vinto la partita. D’altronde un vero scacchista lo sa: vincere per il tempo non è mai una bella vittoria. La sola cosa inquietante erano quegli zeri sull’orologio. Proprio adesso che aveva tante cose da fare, proprio adesso che aveva avuto quell’idea, proprio adesso che aveva trovato la strada giusta, proprio adesso che voleva continuare a vivere. Per fortuna giunse l’arbitro e provvide a far sparire l’orologio, a mettere via pezzi e scacchiera.

“Dobbiamo proprio andare” continuava a ripetergli l’Avversario con voce calma e rassicurante, “il suo tempo è scaduto.”

E calò il sipario sul torneo della vita.